<<Una
compagnia di porcospini, in una fredda giornata d'inverno, si strinsero vicini,
per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto,
però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di
nuovo l'uno dall'altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a
stare insieme, si ripeté quell'altro malanno; di modo che venivano sballottati
avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza
reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.>> (Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, II, 2, cap. 30, 396)
Sicuramente vi starete chiedendo noi
chi? chi è come i porcospini? perché?
Questo post vuole essere d’aiuto a chi
sta accanto ad un familiare o ad un amico che ha un tumore (magari va bene
anche per altre patologie, ma io posso parlare della mia).
Diciamolo, noi siamo soggetti molto
speciali, particolari, permalosi, “incazzusi”,
lunatici, imprevedibili, con un bisogno di ricevere e dare amore immisurabile…
Starci vicino non è semplice, lo
ammetto, e ringrazio chi mi sopporta quotidianamente, che sopporta i miei cambi
d’umore, la mia lunaticità, la mia imprevedibilità, le mie paure e le miei
gioie…
Ora vi svelo un segreto, il segreto del
porcospino e della giusta distanza…
Noi non vogliamo sentirci oppressi, malati,
essere trattati diversamente, avere persone che ci “soffocano” di amore,
attenzioni ed altro, non vogliamo essere messi sotto una campana di vetro… ma
al tempo stesso neanche vogliamo essere trattati come se niente fosse, come se
non avessimo mai avuto nulla….
Non vogliamo sentirvi così vicini da non
poter più distinguere chi siamo, se i pensieri e i desideri sono i nostri o i
vostri… ma neanche vogliamo sentirvi lontani, così lontani da neanche
percepirvi nella nostra “folle vita”.
Giustamente vi starete chiedendo… "e
allora come dobbiamo comportarci? come volete essere trattati”?
La risposta è la giusta distanza, proprio come quella trovata dai porcospini...
Ovviamente è una condizione non facile
da trovare, non è una misura universale perché ognuno di noi ha la "sua" giusta
distanza nei confronti degli altri.
Noi abbiamo bisogno di voi familiari ed
amici, anche se spesso lo neghiamo a noi stessi ed anche a voi, abbiamo bisogno
della nostra rete sicura che ci protegge, sostiene e che gioisce con noi delle
piccole cose.
Certe volte vi trattiamo male, ma è il
nostro modo di “mettervi alla prova”, ovvero, cerchiamo di capire se siete in
grado di attutire i nostri colpi (anche quelli di testa)! Quelli che voi magari
percepite come “calci”, come brutte risposte, magari per noi è un gesto di
affetto, è un dirvi “grazie di esserci, di comprendermi, di assorbire la mia
parte negativa, di essere il mio pungiball”…
Se vi sentite trattati male da noi
dovete esserne felici (lo so che sembra una follia senza senso, ma fidatevi di
me, quasi sempre è così), vuol dire che ci fidiamo di voi, che mettiamo a nudo
con voi le nostre paure e ve le comunichiamo nel modo che conosciamo… espellendole
fuori da noi immediatamente, irrazionalmente e magari senza renderci conto
della modalità “aggressiva” che utilizziamo.
Altra forma comunicativa, e differenza nella
giusta distanza, avviene nei rapporti tra noi “Colleghe di Patologia”…
Tra di noi il linguaggio è diverso, ci
possiamo permettere di avvicinarci di più (anche se dobbiamo stare molto
attente all'empatia e all'invischiamento che si può instaurare e che ci può far
del male). Ho spesso notato come la stessa frase detta da un familiare, che
magari ti fa andare "su tutte le furie", se detta da un’amica di patologia ha
tutto un altro effetto, risuona diversamente dentro di noi. La differenza fondamentale sta nel fatto che noi "colleghe" utilizziamo lo stesso linguaggio specifico, che non è quello medico, ma quello
dell’anima, del dolore, delle paure, delle ansie, delle speranze, del TUMORE.
Per questo ho coniato il termine “Colleghe
di Patologia”, perché come avviene tra colleghi di lavoro o di università, dove
si parla lo stesso linguaggio che magari al di fuori di quel contesto non può essere
compreso, allo stesso modo avviene la comunicazione tra di noi…
Quando ho deciso di scrivere questo post sui rapporti tra noi malati oncologici e la nostra rete
affettiva di supporto ho chiesto a Sabrina, mia cara amica e "Collega di Patologia", di scrivere anche lei qualcosa,
volevo sentire una seconda campana, volevo capire se le mie idee, la mia
modalità di approccio, i miei comportamenti erano dettati dalla mia “follia” o
erano all'interno di una modalità relazionale comune che viene messa in atto da
noi pazienti oncologici…
La mia cara
Sabrina scrive...
<<Felicità, Angoscia, Serenità, Rabbia,
Proposività, Entusiasmo, Depressione, Ansia…
Quanti stati d’animo si vivono con la
malattia!!! A volte si è felici perché tutto prosegue come si desidera e tante
altre volte prendono il sopravvento lo sconforto e la tristezza, perché il
tumore è questo!!!!
E’ difficile per il malato convivere con
la malattia, figuriamoci per le persone che gli stanno accanto.
Le riflessioni sono tante e non esistono
condizioni uguali per tutti. Ogni tumore è imprevedibile e così anche il modo
in cui ogni malato decide di affrontarlo. Ed è stupefacente il modo in cui
ognuno di noi scopre di essere una persona nuova e diversa da prima, ma forse
la verità è che il tumore permette di scoprire lati del proprio carattere e
della propria personalità che la vita normale spesso non è in grado di far
affiorare.
Il quotidiano si trasforma. Ogni singolo
pensiero o azione prende sfumature nuove. E le piccole cose quotidiane e banali
per molti iniziano a risplendere in modo più brillante. La natura diviene
commovente come vedere dei bimbi giocare o fissare un paesaggio marino o di
campagna e ci si aggrappa a questa vita in modo viscerale.
Gli amici, i familiari, i conoscenti non
possono capire tutto ciò che avviene nella mente di un malato. Possono intuirlo
ma comprenderlo a fondo è davvero difficile.
E’ comprensibile stare vicino al malato
lungo il cammino che lo attende ma è impossibile pensare che possa farlo nel
migliore dei modi perché non sarà mai il modo migliore per il caro che
assistono. Al di là di tutti gli sforzi e l’amore che metteranno in atto tenderanno
sempre e comunque ad attuare delle tecniche di difesa che li porteranno ad
agire esattamente come la persona amata non desidera.
Gli equilibri all’interno di ogni
famiglia vengono totalmente messi in moto ed è importante studiare un piano
d’azione che possa far interagire “il
nuovo arrivato” con le dinamiche familiari che devono giustamente andare
avanti. E forse è anche questo un elemento che fa soffrire il paziente
oncologico, vedere che la vita per il mondo che lo circonda va avanti quando
invece a lui gli è stato imposto di fermarsi anche solo per un momento!!
E’ necessario che i membri della
famiglia e gli amici si rendano conto di dover alle volte fare un passo
indietro rispetto ai loro naturali impulsi senza dover essere al contempo
troppo accondiscendenti. Empatici ma non compassionevoli. Il malato oncologico
è una persona che fino alla fine dei suoi giorni nutre uno sfrenato desiderio
di speranza. È la speranza di vivere ogni giorno come gli altri, di vivere ogni
giorno la propria vita. Non può e non vuole considerarsi malato. Non può e non
vuole essere etichettato perché questa etichetta il più delle volte è una
etichetta di condanna a morte.
La speranza invece da la possibilità di
guardare in faccia la malattia in modo nuovo ed aiuta a gestire le difficoltà
con grinta perché dietro lo scoglio ci può ancora essere un meraviglioso porto.
Atteggiamenti di compassione sono visti
dal malato come una condanna senza possibilità di salvezza. Sguardi, attenzioni
troppo opprimenti, perdita di autonomia segnano molto più degli effetti
devastanti di una chemioterapia. Seppur con l’intenzione di aiutare spesso ci
si avvicina al paziente oncologico in modo da peggiorare il suo stato d’animo.
E lo stesso vale per atteggiamenti di indifferenza al problema. Far finta che
il problema non esista fa impazzire il malato che si trova a dover fare i conti
con la propria cartella clinica, radiografia di uno stato di salute piuttosto
delicato, ed un atteggiamento che tende invece a sminuire la realtà dei fatti.
Lo stesso vale per frasi come “ma tanto sei forte”, “tutto si supera”, “la
nuttata a già venir”, “ci saranno tempi migliori”. Il malato sa di essere
forte, lo scopre di volta in volta quando si trova a dover superare prove che
non avrebbe mai creduto o pensato di superare, quando dopo ogni chemio ha la
capacità di alzarsi sorridendo, tornando ad occuparsi del suo lavoro e del suo
quotidiano, quando riesce in breve tempo a riprendersi da un intervento
chirurgico incoraggiando le persone a lui vicine, quando si ritrova a dover
affrontare le ansie date da un nuovo esame. Sentirsi dire “ma tanto sei forte” non lo aiuta, ma
molto probabilmente aiuta colui che lo dice come tecnica di auto-convincimento.
E tocca alla persona affetta dal tumore a questo punto anche incoraggiare il
proprio caro nascondendo ansie, turbamenti, isterismi di vario genere per
partecipare al gioco del “tutto fila liscio, tutto è tranquillo” come gli altri
desiderano che sia.
In realtà il malato oncologico è una
persona esattamente come tante altre, che vive la sua vita come tante altre.
Ovviamente il suo quotidiano è intervallato da dinamiche che per fortuna non
appartengono a tutti ma, al di la di questo, continua a vivere e cerca di farlo
nel migliore dei modi. Questo mostro è entrato nella sua vita e ha
dovuto prendere confidenza con lui divenendone quasi amico. Parlarne, riderci
sopra, trattarlo come uno di famiglia, arrabbiarsi con lui e piangere a causa
sua, perché no anche insieme ad altri, è la realtà che il paziente oncologico
vorrebbe che vivessero anche le persone a lui vicine.
Infine il poter esprimere liberamente i
propri stati d’animo senza sentirsi giudicati per quello che si pensa o per il
modo in cui si decide di affrontare il problema può essere un valido strumento
per il raggiungimento della serenità di cui necessita il malato.
Essere malati senza etichette, ma allo
stesso tempo senza nascondersi da questa croce che gli è stata assegnata,
perché far finta che il problema non esista non aiuta né il malato né i suoi
cari.
Accettare quindi questo stato come
chiave di lettura per relazioni più profonde, come occasione per tornare
indietro e percorrere una strada migliore, come testimonianza tangibile del
proprio passaggio su questa terra, come opportunità per fare della propria
vita, come diceva San Giovanni Paolo II,
un vero e proprio Capolavoro!>>
Sabrina
Spero che questo post possa realmente
aiutarvi a comprendere meglio i nostri folli comportamenti, il nostro
linguaggio, la nostra "diversità nella normalità"...
La mia Nonnina quando vedeva alcuni di questi miei comportamenti, che ovviamente non poteva comprendere, mi diceva “ma com’è, fuodde è… mah”…
I
love life <3